Friday, April 25, 2008

27 Aprile – (Montecarlo)
Quando sento la porta aprirsi e non ti vedo ancora, già credo che sei tu, e la bocca mi si riempie di mosche. Brulica come la primavera, è resinoso il tuo sguardo. Allora ogni volta taccio e ci provo, eppure mi sorprendi.
Bisogna starci attenti, far passare il tempo, arrendersi, per capirlo.
Te ne vai, chissà cosa pensi, com’è pensarlo - e avvicinarsi...non lo farai e io ti sembrerò un po’ scemo, sveglio non lo sono mai stato.
Sarai lontanissima e il rovescio di McEnroe ti farà impazzire, mi manchi.

Vederlo fa venir voglia di fare l’amore, io lo so e anche tu lo sai, ma hai riso quando te l’ho detto. Chissà quante volte colpirà? Proverò a contarle alla televisione. Vorrei essere lì con te – domenica - davanti alla Medusa perché allora toccherebbe a me, pietrificare. Forse un’altra volta.
Ti porterò a vedere il rovescio di McEnroe con la mia macchina, l’anno prossimo se sarai libera di organizzarti. Tifare McEnroe, trasumanare. Spero sia una bella giornata di sole, mi hai detto. Non si gioca se piove.
Io resto. Tu parti se ce il sole, ma anche se piove a Montecarlo. Nella stanza. Dopo la finale. La sera, o la mattina - che è ancor più bello, con la partita in testa - passata , lo sguardo di McEnroe sulla palla negli occhi, sotto le lenzuola con i rovesci di McEnroe e la stanza sconosciuta, ti sentirai lontana a pensare alla partita, al vuoto della vittoria che fa, al rosso della sconfitta e al sesso furioso del pericolo scampato, della vita finita e poi riiniziata, uguale a quella di tutti i giorni eppure ancora un po’ diversa camminando dallo stadio alla stanza e poi ancora un po’ diversa nelle lenzuola, ancora per un po’, forse con me se io ci fossi, funzionerebbe McEnroe.

Wednesday, April 23, 2008

IL RAGAZZO DI "LOTTA CONTINUA" FARA’ LO SCRITTORE
Giuliana stava tirando fuori dallo zaino qualcosa. Quando dilà nell’altra stanza Antonio disse che ci sarebbero stati tutti. Avevamo appena sistemato a terra lo striscione, Giuliana con le braccia piene di bombolette ci fece segno “dilà”. “Qui puzza, poi sporchiamo le pareti”. Era l’unica a cui interessavano le pareti dell’università. La segui portandomi dietro il lenzuolo e i pali. “Che giornata di merda” disse. E invece c’era la luce giusta – anche se era febbraio sembrava di un profondo autunno – mi faceva venire in mente Marlowe, era come se ci fosse dentro un inverno che incubava, e si capiva già che qualcosa sarebbe potuto uscire dai binari. Mentre il lenzuolo pian piano si bagnava per la pioggia, lei - con le sue scarpe di vernice cercava di tenerlo diritto. Era alle prese con la T per finire di scrivere “Tibet” quando arrivò quello di Lotta Continua, con i pantaloni infangati. Un tipo altro, magro. Mi sembrava nervoso, ma tutti quelli di Lotta Continua lo erano. Era biondo e parlava con un accento napoletano. Ci disse di non mischiarci con gli Indiani, che dovevamo fare gruppo con Autonomia e con loro, disse anche di tenerci pronti a caricare. Il tipo si allontanò appena vide Alfonso che usciva dal portone dell’aula Magna. Guardai Giuliana e lo striscione sporco di fango, poi provammo ad alzarlo. Disse che non andava bene; era troppo stilizzato e poco impressivo. “Chi cazzo se ne frega, si legge?” Parlava usando parole come quelle: “stilizzato”, “impressivo” parole che mi irritavano.

BELLACHIOMA E’ MORTO DAVVERO!
Noi maschi del gruppo ci eravamo fatti dire il nome del ragazzo che era stato ucciso dai fascisti la settimana prima, il ragazzo di Bologna con il maglione rosso che sanguinava a terra nelle foto dei giornali. Bellachiona lo chiamavano. Lo volevamo scrivere sullo striscione, ma Giuliana se ne era uscita con una delle cose sue, aveva detto che la rivoluzione doveva far ridere, dovevamo partire disinteressandoci del male, perché senò il male ci avrebbe fatto diventare come loro, “loro chi?” nessuno la capiva e dal fondo dell’aula qualcuno applaudì ironicamente. Ma Mario accettò la proposta di Giuliana, e così fece copiare sullo striscione il suo bigliettino. Quando ripassò il biondo napoletano, lo guardai bene in faccia, aveva un paio di occhi blu chiaro, sembrava un cow-boy. Lo striscione riuscì a strappargli un sorriso che dedicò a Giuliana, poi si rigirò dalla parte di Alfonso. Lei mi guardò carica di orgoglio e mi fece segno di arrotolarlo. Il cortile dell’università si stava riempiendo di gente, in fondo stavano cercando di tirare un cellophane per ripararsi dalla pioggia. Ci dissero che quelli del sindacato erano partiti e stavano arrivando, che dovevamo cominciare a prendere posto e uscire.

GRAMSCI E MAO ZEDONG PUZZANO COME TE
Tutti parlavano di Lama e del sindacato, della distanza tra il paese reale e la politica, Giuliana non avrebbe mai usato parole come “paese reale” o “sistema”, lei aveva le sue parole, un vocabolario irritante, e incomprensibile. “Dobbiamo andare ad affiggere lo striscione” mi disse. Decidemmo di tirare lo striscione tra l’aula 405 e al409 sul lato ovest. Giuliana aveva srotolato il lenzuolo e stava provando a pulire le impronte lasciate dal ragazzo di Lotta Continua. Usava un pezzo di giornale e con la saliva voleva levare la macchia, ma la spandeva senza riuscire a levarla, i compagni che passavano fissavano per un po’ l’ ossessa che fregava sputando sul lenzuolo, poi quando riconoscevano Giuliana riprendevano a camminare. Chiesi se qualcun altro poteva andare con lei, io volevo unirmi al presidio del corteo. Alfonso sorrise a Mario e mi fece segno così con la mano.
“Provo a vedere se qualcuno viene con noi”
“Lascia – ce la facciamo anche da soli”
In aula non trovai nessun che ci poteva aiutare, Chicco e Lucia erano ancora arrotolati dentro il saccoapelo, e c’era l’odore di quel tempo, me lo ricordo bene: chimica e biologia, gas che avevano preso confidenza con in vestiti, con i volantini, con i trucioli di tabacco, con la segatura e i capelli per terra. Si erano fusi in una simbiosi vitale con la politica, con l’ideologia, con Antonio Gramsci e Mao Zedong. Era come se tutto quel mondo di rifugiati si fosse messo a respirare una fotosintesi inversa che ci faceva puzzare miracolosamente come loro.

TANTE PAROLE, ADRIANO E SANDRO.
Nei giorni che avevano preceduto questo giorno, almeno per una settimana, non avevamo fatto volantini, ne tavole di discussione, Alfonso non aveva provato a mettere in piedi un qualche colletivo per inquadrare “realta e mistificazione” – non si erano bruciati i giornali dei capitalisti e non si era preparata nessuna forma di contestazione, i Comitati Marxisti Leninisti non avevano allestito i loro panelli nell’atrio con frecce rosse per piegare le dinamiche sociali, gli striscioni si erano imbastiti all’ultimo minuto così come venivano, alcuni si erano semplicemente adattati da vecchi lenzuoli che avevamo scritto l’inverno. L’unico nuovo era quello che Giuliana aveva proposto. La contestazione questa volta sembrava si stesse decidendo su un diverso livello – questa volta non centrava la gerarchia ma il “significato”, un significato che la parola lotta non aveva mai avuto. Per noi era misterioso ma eccitante, e tanto più eccitante quanto lo si poteva sentire crepitare intorno, nascosto sotto le cose. Nessun lenzuolo, nessun volantino, nessuno sguardo fisso a chiare lettere sul ghigno superbo di un compagno. Sembrava passare di parola in parola di bocca in bocca, di cuore in cuore, dai Marco dai Luigi dagli Adriano e dai Sandro, sembrava scritta in un codice nuovo che era solo intuibile leggendo labbra e sguardi, bisognava essere pronti, e tutti già lo eravamo – conoscevamo per istinto l’ energia che sarebbe successa, non avevamo bisogno di nessuna “coscienza” , perchè nessuno di noi aveva paura.

17 FEBBRAIO 1977. SAMPIETRINI VOLANO COME SPILLI
Era così chiaro, ma non riuscivo a spiegarlo a Giuliana. Non ci poteva essere coscienza di classe senza unione mi rispondeva sulle scale, e già il discorso partiva male, commetteva l’errore, lei, come tanti altri compagni di fermarsi, pensare, indottrinare il discorso e cancellare l’istinto. Cercava di tenere diritto il palo e non farlo sbattere sui corrimani mentre salivamo verso l’aula 405. “Lascia lo prendo io”. Come si faceva a parlare di coscienza di classe? Che cos’era questa classe? Ma più che altro che bisogno avevamo di formare una classe? Giuliana proceda a fatica ma non voleva essere aiutata e io la lasciavo fare. Alzandoci il mondo del corteo diventava sempre più piccolo e mi dava un senso di vertigine guardarlo da lassù, si snodava da dietro l’angolo del palazzo di fronte fino al camioncino bianco. “Non credi sia troppo alto, dal quinto piano neanche lo vedono lo striscione”. Una volta girati verso il lato Ovest si vedeva bene il camioncino bianco e il piccolo palco su cui avrebbe dovuto parlare Lama.

Monday, April 21, 2008

No .... come le ho già detto è stata una coincidenza, non avevamo nessun appuntamento. Io sono tornato da una cena.... è la trentesima volta che glielo racconto. Come vuole...sono calmissimo. Si è una mia collega. Allora, ritornavo da una cena, avevo il telefonino scarico, volevo rispondere a un messaggio, non suo, non ho il suo numero, vado a fare una ricarica al bancomat vicino a casa mia...si, mi ricordo, ma è anche vicino a casa mia: io e lei abitiamo sullo stesso lato della strada a trecento metri. Va bene, come vuole: vicino a casa sua – scriva vicino a casa sua. Il bancomat è proprio sotto casa sua. Parcheggio e vado a prelevare, all'uscita la incontro, la incontro quando ho già prelevato, si facevo per dire: caricato il telefono, caricato il telefono. No, non mi ha detto dove andava e io non glielo chiesto, non mi ricordo come era vestita. Si aveva la giacca e le scarpe, comunque l'ho salutata mi ha detto che abitava lì sopra, ha indicato la finestra, non si capiva bene, io ho pensato fosse quella spenta .Lo sapevo già che abitava lì, ma non me lo aveva detto lei, me lo aveva detto una collega. Ve l'ho già detto: mi piaceva - così avevo chiesto un po' di cose in ufficio sul suo conto, no - non ci frequentavamo, no nemmeno professionalmente, non so se lei lo aveva capito - forse, una volta le ho detto che l'avevo sognata, anche lei – anche lei mi aveva detto che mi aveva sognato, no, a una collega, lei lavora nei laboratori io negli uffici, la vedevo qualche volta all'uscita o in pausa pranzo, Si sarà due anni, lei è arrivata da pochi mesi. A Morbegno. Non non so dove. Le parole precise non me le ricordo, le sue.. ma non credo. Non capisco cosa c'entra il nostro incontro in strada. No, va bene – vorrei finire stasera. Lei mi si avvicina. Ci salutiamo. Mi dice come va, o una cosa del genere, poi si siede sul corrimano per i portatori di handicap, quello che hanno i bancomat per facilitare la salita delle carrozzelle, anch'io - ma quel bancomat ce l'ha. Mi dice se non mi sembra triste e vuota la città, se non mi annoio a stare lì, mi chiede dove abito esattamente. No non mi invita a salire ancora. Se vuole passo direttamente a quando. Non voglio tralasciare niente nemmeno io, ma questa è la quinta volta. Non riesco a ricordare cosa . Come? Si è vero.....questa parte gliela raccontata lei? e va bene ci siamo baciati prima di salire. No, non ho mentito, no mi andava di dirlo.....non mi sembrava rilevante. Avevamo forse iniziato a parlare dei colleghi, o della primavera che non arrivava e che lei aveva voglia della primavera, io non mi ricordo, nel frattempo anch'io mi ero messo seduto sul corrimano vicino a lei, no, non c'era nessuno, passava qualche macchina dietro la strada ogni tanto. Si che ci vedevano eravamo li sul marciapiede. A un certo punto lei mi ha chiesto se volevo uno gomma - così è andata, e poi ci siamo baciati. L'ho baciata io. No, la gomma non me l'ha data. Mi ha guardato e mi a sorriso, tenendo la sua gomma masticata tra i denti e mi ha chiesto se volevo una gomma. Va bene così? E' chiaro? Non lo so, cinque, dieci minuti forse. No, no, me lo ha chiesto lei. Per una camomilla, e anche per vedere la casa. Avevamo parlato anche della nostra casa, e di come era vivere da soli. Si poi siamo saliti, tutto normale. Va bene, abbiamo attraversato la strada, abbiamo preso l'ascensore, no - non ci siamo baciati sull'ascensore, in quel senso lì. Quale? Io le tenevo la mani, e le baciavo le guance, lei aveva gli occhi chiusi, è durato poco, abita al terzo piano. Non nient'altro, cosa le ha detto? La porta era aperta, mi ricordo che non era chiusa a chiave e questo mi è sembrato strano. Ci siamo messi sul divano, abbiamo parlato di cose che ci venivano in mente li sul momento, soprattutto ci siamo baciati, ho visto il corridoio e la sala dove c'era il divano bianco, la sala, ma tutta la casa era molto luminosa, il bianco era dappertutto. Non lo so per quanto tempo, siamo andati avanti per un ora due, non solo baci, certo baci, no - non ci siamo tolti i vestiti, ci siamo toccati dappertutto, anche sotto i vestiti, ci siamo baciati per due ore, non ci ho pensato, a - credo di si, anzi sicuramente, me ne sarei accorto. A me? a me si, ma non abbiamo detto niente, ci siamo guardati per dei momenti lunghi senza dire niente, poi riprendevamo. Non mi ricordo cosa abbiamo detto quando abbiamo parlato, no - non ho notato niente di strano, eravamo senza scarpe e senza calze, lei mi ha chiesto di togliermi le calze. No, ma le pare! C'erano le tende aperte, completamente aperte e poi mi ha detto “finalmente” e che non vedeva l'ora. Ero contento. L'una, l'una e mezza. Poi, è lì che ho cominciato a sentirlo, qualcuno ha cominciato a cantare, la voce arrivava dall'altra stanza, era la voce di un uomo, e mi è gelato il sangue, sono saltato su e le ho chiesto se c'era qualcuno. Lei come se fosse la cosa più normale del mondo mi ha detto si. Me lo ha detto lei quando le ho chiesto chi era, mi ha detto che era il suo ragazzo. Poi non diceva più niente, ne parlava ne mi baciava, mi guardava, Io? Io cercavo di capire, e la guardavo. Ero imbarazzato. Si, si capiva che era la voce di maschio. Cantava, continuava con quella vocina a cantare “Pasolini è morto per te – è morto a bastonate per te” "Pasolini è morto per te – è morto a bastonate per te”. Non sapevo cosa dire e lei non diceva niente. Poi le ho chiesto cosa, lei non mi ha risposto. Allora io ho provato a chiederle se me ne dovevo andare, lui intanto continuava a cantare quel ritornello in sottofondo, lei mi ha sorriso e mi ha detto di no. E' a quel punto che mi è sembrata spaventa e io mi sono sentito ancora di più. Poi il suo ragazzo di là l’ha chiamata e lei mi ha detto "vieni", si è alzata e mi ha tirato per una mano dilà. No, che non volevo andare, è che io non capivo neanche bene cosa stava succedendo, adesso quello che continuavo a pensare era di non sembrare un cagasotto, così l'ho seguita, per quello l’ho seguita. “Pasolini è morto per te, Pasolini è morto a bastonate per te”, continuava. La cucina era ancora più bianca e luminosa del resto della casa, impressionante, facevo fatica a tenere aperti gli occhi, e cosa? “Pasolini è morto per te, Pasolini è morto a bastonate per te” Come cosa? C'era lui, questo ragazzo seduto sul tavolo, teneva un bicchiere vuoto e una bottiglia di vino. Cioè la bottiglia era completamente trasparente, di quelle con il tappo incorporato e dentro c'era del vino. Si sono sicuro, vino. Non mi pare perchè il suo bicchiere fosse vuoto. Non l'ho visto bene in faccia, c'era troppa luce. Si andiamo con ordine. Lui l'ha salutata e non mi guardava, e le sorrideva, lei prima si è guardata le punte dei piedi scalzi poi,le ha detto chi ero. Allora lui mi ha guardato sempre con quel sorriso “Pasolini è morto per te, morto a bastonate per te” e mi ha detto che lei gli aveva parlato di me. Niente, mi guardavo le punte dei piedi. Freddo e luminoso. Poi lei è andata verso di lui, gli è andata dietro le spalle e con mani, stando in piedi, ha cominciato a massaggiarlo sulle spalle. Io, io niente sono stato lì. Non sapevo cosa dire. L'avrei detto, stavo solo pensando se era una soluzione da codardo. Magari non ci aveva sentiti. No io non l'avevo sentito, si per due ore – credo sia stato in cucina per due ore, l'avrei visto se fosse entrato o uscito, non lo so se ci ha sentito, concitati? Si credo fossimo concitati, si eravamo molto concitatiti. Mi ha chiesto se volevo un bicchiere di vino intanto versava. L'ha riempito fino all'orlo. Volevo dire di no, perchè la prima cosa che ho pensato era che fosse vino avvelenato, ma poi, non lo so - mi sembrava una soluzione troppo scontata, come se fosse proprio quello che voleva pensassi, cioè che io pensassi che fosse avvelenato e non lo prendessi, allora l'ho accettato, si forse è proprio così, non volevo sembrare un cagasotto, o forse era un modo per convincermi che tutto fosse sotto controllo, che fosse una situazione normale. C'era questo bicchiere rossissimo dentro la cucina bianca e io e lei e lui. Poi lui versava a una velocità che quasi usciva, come se volesse far finire tutta la bottiglia nel bicchiere, e mi ha detto se non mi faceva venire in mente niente. Bevi, bevi mi diceva. Quando ho finito? Me ne ha riempito un altro,guardandomi con un ghigno che mi cominciò a mettere paura. No no lo saprei descrivere, c'era troppa luce, aveva i capelli neri, era anche lui scalzo, ho provato a rendere quella situazione normale chiedendogli se vivevano insieme, mi ha risposto, si che mi ha risposto, mi ha detto di no e intanto si sono guardati, allora, allora cosa? gli ho detto che non volevo più vino ma lui insisteva, il bicchiere era completamente pieno, strabordava quasi. E allora a tirato su da sotto il tavolo la mazza. Stavo per alzarmi correre fuori, ma non c’è lo fatta. Come? No, non ce l’ho fatta ero come incollato alla sedia. E lui si è alzato mi è venuto incontro, poi mi ha guardato da vicino, e io l’ho visto. Mi ha dato uno schiaffo piangendo, si era messo a piangere, piangeva le dico, inequivocabilmente - aveva gli occhi tutti rossi e circondati di lacrimoni e singhiozzava, io l’ho guardato e poi ho guardato lei, lei mi guardava e piangeva, piangeva anche lei. Si, forse si aspettava qualcosa, che ne so? Mi guardava come se si aspettasse qualcosa da me, allora? Allora io non ce l'ho fatta e sono scappato, sono corso via, giuro, e non gli ho più visti e non so cosa sia successo dopo, sono corso via e non ho più visto niente.

Thursday, April 17, 2008

Oggi l'ho persa che andava via dall’ufficio, che apriva la macchina facendo illuminare le quattro frecce da lontano, che entrava nella macchina e poi scendeva la strada lentamente fino alla curva dove la strada diventa asfaltata, non ho visto la sua macchina arancione prendere velocità e girare dietro la grande casa bianca e sparire. Tra il punto in cui comincio a vederla e la macchina ci sono circa 80 metri che lei percorre in meno di un minuto. Spunta da sotto l’edificio e le vedo la testa, sta proprio sotto di me, supera il cancello e cammina ancheggiando. Quando piove non usa l’ombrello, ha una giacca con il cappuccio, fa quei metri con il cappuccio, e io mi sento veramente male quando sale sulla macchina e sta piovendo . Poi sparisce dietro la casa bianca e allora io scendo dal bidè dove mi sono messo in piedi per arrivare alla finestra. Apro la porta e esco dal bagno. Sono sempre circa le cinque e un quarto. Lo faccio da otto mesi. Quando lei è un po’ in ritardo aspetto anche dieci minuti, finché lei non arriva. Oggi però ha tardato venti minuti e io ho aspettato chiuso in bagno solo quindici minuti, così l’ho persa. A volte capita che la sento parlare con i colleghi prima che riesca a vederla, passano decine di secondi a volte. Poi finisco io di lavorare e tutte le sere - da più di nove mesi - passo sotto casa sua e vedo ancora la sua macchina arancione parcheggiata nei parcheggi pubblici, a volte lungo la strada a volte nella piazzetta. Quando non la vedo mi chiedo dove sarà e mi sento triste. Anche quando la vedo però non mi sento soddisfatto perché vorrei fare qualcos’altro, non proseguire e prendere la strada che mi porta a casa. Dopo cena verso le undici prendo la macchina e faccio il giro dell’isolato per vedere se la macchina è parcheggiata ancora lì, mi sento ancora triste, ma non così triste come le altre volte perché so che il giorno è ormai finito e mi sembra che non ci sia poi così tanto tempo ancora.

Tuesday, April 15, 2008

Queste sono le cose che più o meno dice Orazio, cose vecchie, cose sentite e risentite, però Orazio fa il professore, e dopo non è mai più cresciuto. Credo che sia vero come dice lui che il risultato di queste elezioni sia storico (lui ha usato anche due volte la parola “rivoluzionario”, ma io non ci credo). Le elezioni politiche dell’aprile 2008 hanno “ufficialmente” sancito (che brutta parola Orazio!) con vent’anni di ritardo la morte della sinistra italiana, quella sinistra che ci ha costituito come nazione moderna/fordista /capitalista quando noi non eravamo ancora nati ( per fare il capitalismo ci vogliono gli operai e i sindacati e la dialettica – e Orazio si impenna). La sinistra comunista, anticapitalista, quella che odia il denaro e fa la morale,la sinistra per vocazione “proletaria”- la sinistra dell’Unità e di Michele Serra (guarda che Michele Serra è cambiato!), che ha fatto la guerra civile, che ha vinto la guerra civile, che ha fondato la Repubblica, e che ha scritto la costituzione insieme alla nostra storia civile e ideologica per cinquant’anni. La sinistra del comunismo, delle anime belle, delle case editrici, della politica fatta coi nervi e col cuore. Ma sei sicuro? Si dai, fino a ieri faceva ancora i girotondi e iscriveva i figli ai centri sociali. Il tessuto vivo e pulsante di cinquant’anni di Repubblica, insomma. E' stato un processo lungo dice Orazio iniziato tardi e male (ti ricordi Occhetto e la Cosa?), iniziato troppo tardi: quanti anni sono passati dall’89 e dal ‘56 quanti anni sono passati e dal '68, quanti? Ma oggi è ufficialmente finito, con un bel colpo di scena: l’ultimo comunista gentiluomo da presidente della camera a ectoplasma politico, mi dice Orazio. Quello che non è riuscito a fare tangentopoli lo ha fatto il tempo, il tempo è venuto…Si va beh Orazio, ma oggi che tutto questo è finito cosa è rimasto? E’ rimasta la possibilità alla destra di ricostruirsi come idea, se la sinistra diventa un’altra cosa allora anche la destra lo può diventare, se il comunismo se ne va se ne va anche il fascismo, allora si può votare un’idea senza averne più paura, senza bisogno di mascherarla (forse non ti ricordi, ma ci ha già pensato Berlusconi, la destra è già diventata "qualcosaltro" nel '94 con ForzaItalia e la Lega, quando è finita la DC e Berlusconi si è mangiato Fini) – e appunto questo che ti voglio dire, Berlusconi ha anticipato tutti già due volte; e allora mi chiedo a cosa serve che finiscono le disgrazie, che ci siano dei rivolgimenti ideali che i cicli temporali portino a tabule rase su cui saremmo portati a costruire di “meglio” , se poi in quel momento “giusto” ci sono gli uomini nel posto sbagliato

Wednesday, April 09, 2008

Sono seduto sul muro che costeggia il fiume che attraversa la mia città. Sto aspettando una telefonata. Lei mi ha chiamato dieci minuti fa e mi ha chiesto per chi avrei votato domenica. Io non ho saputo risponderle subito, allora lei mi ha chiesto se sapevo chi era Turati. Io non sapevo chi era Turati. E Gobetti sai chi è Gobetti?. No. Allora mi ha detto di pensarci e poi richiamarla.

Mentre aspetto che Andrea mi telefoni per dirmi chi sono Gobetti e Turati, mi chiama un altra ragazza: mi dice che è stufa – e se non l’ho ancora capito posso andare al diavolo! Siamo usciti tre volte questa settimana. Mi ricorda dell’uovo di pasqua e di altri piccoli oggetti costosi che mi ha regalato. Ci sono oggetti e ci sono sguardi che avrebbero dovuto fartelo capire! Poi mi chiede se io la vedo solo come un’amica o invece come qualcosa di più. Non rispondo immediatamente, tentenno alla ricerca del modo migliore per dirglielo. Allora lei mi dice di pensarci e richiamarla.
Poi Andrea mi chiama e mi dice che Turati era uno che stava con una russa e che era amico del papà di Natalia Levi e che Gobetti era un mingherlino preso a botte dai fascisti e che era morto non si sa bene se per le botte dei fascisti o perché era mingherlino e tisico. Faccio un sospiro di sollievo. L’ultima parte è forse meglio non dirla. Io gli dico che mi interessava proprio quella perché devo sapere per che partito votavano. La domanda ha tutta l’aria di essere sulle elezioni di domenica. Guarda che quei due sono morti. Lo so, ma deve essere una specie di gioco - devo sapere per chi votavano perché credo lei si aspetti che io voti quella parte lì. Quelli erano due fascisti, quindi votavano per Mussolini. Cioè adesso voterebbero per Forza Nuova. Ma se mi hai detto che uno è stato ammazzato dai fascisti! Si ma era un dissidente interno che aveva fatto un giornalino che andava contro le idee sul cinema del fratello di Mussolini, oppure si voleva fare la Duse, non me lo ricordo – ma fidati, quelli l’hanno ammazzato ma non lo volevano ammazzare era una specie di scazzotta nel cortile. Akey. Okey. Mi ha anche chiamato quella ragazza di cui ti ho parlato ieri. Quella! Si, quella. Vuole sapere se la vedo come un’amica o come qualcosa di più. E’ allora? Allora cosa? Allora lo saprai. Si che lo so, ma ho paura di farla soffrire – non ce un modo per dirle che mi fa schifo senza farla soffrire? Chiedile chi erano Gobetti e Turati.

Monday, April 07, 2008

Ieri ho incontrato la ragazza che ha avuto un tumore. La ragazza che ha avuto un tumore mi guardava con gli occhi sbarrati, e tutto il fard non riusciva a coprirle le rughe intorno agli occhi che le ha lasciato il tumore. Mi sorrideva e tossiva. Per quanto la guardavo e facevo finta di niente, dentro - mi sentivo imbarazzato, imbarazzato e fortunato. Sembra che la ragazza che ha avuto un tumore adesso stia meglio, anche se le si legge una certa precarietà addosso, una luce più scura negli occhi, la malinconia che ti porta la vecchiaia nel sorriso. Eppure una forza nuova nella voce. La ragazza che ha avuto un tumore mi fa paura. Qualcosa di misterioso, leggero e impalpabile l’ha avvolta. Non c’è niente di diverso in lei a parte le rughe intorno agli occhi e un certo rigonfiamento dei tessuti, eppure - anche se i capelli le sono cresciuti e il pallore è svanito - la ragazza che ha avuto un tumore non sarà mai più la stessa ragazza di prima. Mi fa paura eppure vorrei parlare con lei, ma non come ho fatto ieri – vorrei guardarla negli occhi e chiederle del tumore. Vorrei che mi facesse parlare con lui. So che se dovesse farmi parlare col tumore io comincerei a piangere. La ragazza che ha avuto un tumore ogni volta mi dice che qualcosa mi potrebbe accadere, qualcosa che -per carità! - accade, e a cui io non mi sento assolutamente pronto. La ragazza che ha avuto un tumore ogni volta che mi guarda mi dice che sono un uomo senza coraggio, che sono un uomo egoista senza una vita interiore. Me lo dice anche quando muove la mano e mi tocca per allacciarsi la cintura di sicurezza. Lei non parla mai del tumore, so che lo fa per tenerlo lontano da noi, ha imparato - ormai , che bisogna tacere perché il suo nome è come la malattia. La ragazza che ha avuto un tumore parla ancora tutti i giorni con il tumore. Quando era appena arrivato tutti le chiedevano “come stai?” – lei non lo sapeva ancora bene, ed erano terribili gli occhi e le facce della gente che voleva stare lontana dal tumore e sarebbe corsa via perchè sentirne il nome faceva così male. Vorrei chiederle come faceva e se le faceva più male la violenza che il tumore esercitava sugli altri attraverso di lei, oppure la pietà che gli altri provavano per lei. Vorrei non essere come gli altri. Ma mi sento più meschino. Vorrei avere una risposta e stringerle la mano così forte da sentirlo, poi guardarla, ma - in ogni modo in cui me la giro - continuo ad avere paura e non la guardo. E per quanto ne so, l’unica cosa che riesco a mettere tra la paura e il dolore è qualcosa che mi fa dire “io”.

Thursday, April 03, 2008

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IL 13 – 14 APRILE 2008 NELLA MIA CITTA'
Voglio che vinci le elezioni perché hai due fotografie appiccicate con lo scotch alla parete e hai un sorriso meraviglioso, perché hai preso sempre sul serio la politica fin dal liceo quando eri rappresentante di classe, e non ti è mai passato per la testa di fare Scienze Politiche o Relazioni Internazionali o Sociologia, non volevi diventare un ambasciatore ne andare in Ciapas ne aiutare quelli meno fortunati di te, e hai sempre pensato la politica come un fatto personale e non una cosa di tutti, non hai mai usato le parole “comunità”, “sistema”, “gestione delle risorse” o peggio “sociale”, voglio che vinci le elezioni perché non sei ipocrita, e hai un rapporto puro con il linguaggio, le parole sono tue e si sente quando le dici e sai fare discorsi sgraziati irritanti detti a metà , e le tue parole non luccicano ma sanno sempre di qualcosa, non le potrebbe usare nessun altro e allora potresti sembrare insicura ma io so che in politica tutti quelli che non lo sono mentono, e voglio che vinci perché tu sei sincera e non hai nessun brio nella voce e ti fanno paura le responsabilità che ti sei presa, come se non ti sentissi pronta verso di te quindi nemmeno verso di loro, voglio che vinci perchè ci sai fare con i bambini e perché i bambini ti ascoltano, e sai cos’è il PIL e la Bilancia Dei Pagamenti, conosci la legge di Say e Amelia Rosselli, ami Pina Bausch e il colore delle pastiglie di Viagra, e non hai paura a nominare il “cazzo” durante una cena in casa di altri e perché abbiamo fumato insieme e ci si è increspata la voce leggendo i giornali dell’81 quando abbiamo pensato a Berlinguer e al suo tempo e perché dicevi saresti andata al suo funerale, e ti piaceva, e abbiamo parlato spesso di cosa non ci piace della nostra città, del nostro quartiere e non è una questione ne di cultura ne di piste ciclabili ma di persone e hai detto che le persone non si possono cambiare, così basterebbe provare a smuoverle, che tu non ci pensi proprio a cambiare il mondo e a rendere questa città più bella, vuoi solo fare capire che il mondo è più grande di questa città e che è meglio perdersi nel mondo che suicidarsi qui in questa città, e ti irritano tutti i discorsi sul rispetto della tradizione e la valorizzazione del territorio, perché non hai mai ben capito cosa sia la “tradizione” ne il “territorio”, se esiste una tradizione è una cosa molto più semplice che parte dal colore con cui si pitturano le case, voglio che vinci le elezioni perché vai in piazza il sabato sera e poi vai a ballare in discoteca vestita bene e ti piace la Francia lo ska e i centri sociali, e mi hai portato a ballare fino a diventare nera, voglio che vinci le elezioni perché ti sei fatta un acido, hai bevuto finchè sei andata ai pazzi, odi l’espressione “problematiche giovanili”, e mi hai sottolineato i libri di Natalia Ginzburg e di Sylvia Plath, e tra Pasolini e Calvino dici tutta la vita Pasolini e tra Manzoni e Leopardi dici tutta la vita Leopardi, e non ti piacciono le femministe ma neppure Elsa Morante, Rita Levi di Montalcini la odi, Daria Bignardi invece ha un’intelligenza che ti piace, e sai quello che manca qui perché hai vissuto a Barcellona a Berlino e a Londra eppure sei sempre tornata qui e ti piace vivere qui e fare quello che fai, e non odi Berlusconi e non lo insulti, non lo chiami “Nano Malefico” ma lo osservi e credi sia una persona divertente e generosa a suo modo, non provi rancore verso gli altri, non credi nel “dialogo” ne nel “confronto” – anzi ci credi ma non lo dici, e vuoi che sia chiara la distanza tra te e Michele Santoro per esempio, tra te e Eugenio Scalfari per esempio, ho capito che ti avrei votato quando alla presentazione della lista hai raccontato il peggio di te e nessuno sembrava crederci, e hai aperto un blog per presentarti in cui parli di politica e non parli di te, ma si capisce chi sei e la politica di cui parli non sembra la dispensina di quella del primo banco, quando hai deciso di candidarti con il PD hai detto che ci sono tante cose che non ti piacciono del PD, ma che in fondo è la tua gente, e sapevi che dalla politica non si può uscire completamente puliti, e sai di essere nel posto giusto, e da quando è iniziata la campagna elettorale che ho deciso di votarti e lo avrei fatto anche solo perché di mestiere fai la ballerina.

Wednesday, April 02, 2008

WRITERS GUILD OF AMERICA 2
Marcello Mastroiani è in Italia, e sta girando “Amanti” con De Sica, insieme a lui recita un’attrice americana bionda non ancora famosa. La sceneggiatura che gli ha dato Flaiano la leggerà tra il mese di gennaio e febbraio del 1968. Un inverno freddo di cui Marcello ricorderà l’immagine dei fogli appoggiati sui vari comodini degli alberghi in cui ha passato la notte. Alla fine di febbraio Flaiano e Mastroianni si incontrano a Roma, l’attore si dimostra più che entusiasta e dice di avere sotto mano l’attrice perfetta per la parte di Liza (adesso Flaiano pensa a qualcosa a cui aveva già pensato, qualcosa tipo: “due piccioni con una fava”). Sono rilassati, fumano e la loro conversazione si conclude molto dopo le 9. Sono passate 2 ore da quando Mastroianni ha pronunciato le parole più importanti di tutta la serata, parole così care a Flaiano che nei giorni successivi sfileranno davanti a Il Progetto, dentro la testa di Flaiano, divenendone la sigla d’apertura:“ il ruolo di Liza sembra scritto apposta per Faye” - “ il ruolo di Liza sembra scritto apposta per Faye”.
Nel mese di settembre dell’anno 1969 Faye Dunaway, Marcello Mastroianni, e Ennio Flaiano si incontrano a Roma. Faye beve cioccolata calda con panna, Flaiano la guarda

(continua altrove…)