Wednesday, April 23, 2008

IL RAGAZZO DI "LOTTA CONTINUA" FARA’ LO SCRITTORE
Giuliana stava tirando fuori dallo zaino qualcosa. Quando dilà nell’altra stanza Antonio disse che ci sarebbero stati tutti. Avevamo appena sistemato a terra lo striscione, Giuliana con le braccia piene di bombolette ci fece segno “dilà”. “Qui puzza, poi sporchiamo le pareti”. Era l’unica a cui interessavano le pareti dell’università. La segui portandomi dietro il lenzuolo e i pali. “Che giornata di merda” disse. E invece c’era la luce giusta – anche se era febbraio sembrava di un profondo autunno – mi faceva venire in mente Marlowe, era come se ci fosse dentro un inverno che incubava, e si capiva già che qualcosa sarebbe potuto uscire dai binari. Mentre il lenzuolo pian piano si bagnava per la pioggia, lei - con le sue scarpe di vernice cercava di tenerlo diritto. Era alle prese con la T per finire di scrivere “Tibet” quando arrivò quello di Lotta Continua, con i pantaloni infangati. Un tipo altro, magro. Mi sembrava nervoso, ma tutti quelli di Lotta Continua lo erano. Era biondo e parlava con un accento napoletano. Ci disse di non mischiarci con gli Indiani, che dovevamo fare gruppo con Autonomia e con loro, disse anche di tenerci pronti a caricare. Il tipo si allontanò appena vide Alfonso che usciva dal portone dell’aula Magna. Guardai Giuliana e lo striscione sporco di fango, poi provammo ad alzarlo. Disse che non andava bene; era troppo stilizzato e poco impressivo. “Chi cazzo se ne frega, si legge?” Parlava usando parole come quelle: “stilizzato”, “impressivo” parole che mi irritavano.

BELLACHIOMA E’ MORTO DAVVERO!
Noi maschi del gruppo ci eravamo fatti dire il nome del ragazzo che era stato ucciso dai fascisti la settimana prima, il ragazzo di Bologna con il maglione rosso che sanguinava a terra nelle foto dei giornali. Bellachiona lo chiamavano. Lo volevamo scrivere sullo striscione, ma Giuliana se ne era uscita con una delle cose sue, aveva detto che la rivoluzione doveva far ridere, dovevamo partire disinteressandoci del male, perché senò il male ci avrebbe fatto diventare come loro, “loro chi?” nessuno la capiva e dal fondo dell’aula qualcuno applaudì ironicamente. Ma Mario accettò la proposta di Giuliana, e così fece copiare sullo striscione il suo bigliettino. Quando ripassò il biondo napoletano, lo guardai bene in faccia, aveva un paio di occhi blu chiaro, sembrava un cow-boy. Lo striscione riuscì a strappargli un sorriso che dedicò a Giuliana, poi si rigirò dalla parte di Alfonso. Lei mi guardò carica di orgoglio e mi fece segno di arrotolarlo. Il cortile dell’università si stava riempiendo di gente, in fondo stavano cercando di tirare un cellophane per ripararsi dalla pioggia. Ci dissero che quelli del sindacato erano partiti e stavano arrivando, che dovevamo cominciare a prendere posto e uscire.

GRAMSCI E MAO ZEDONG PUZZANO COME TE
Tutti parlavano di Lama e del sindacato, della distanza tra il paese reale e la politica, Giuliana non avrebbe mai usato parole come “paese reale” o “sistema”, lei aveva le sue parole, un vocabolario irritante, e incomprensibile. “Dobbiamo andare ad affiggere lo striscione” mi disse. Decidemmo di tirare lo striscione tra l’aula 405 e al409 sul lato ovest. Giuliana aveva srotolato il lenzuolo e stava provando a pulire le impronte lasciate dal ragazzo di Lotta Continua. Usava un pezzo di giornale e con la saliva voleva levare la macchia, ma la spandeva senza riuscire a levarla, i compagni che passavano fissavano per un po’ l’ ossessa che fregava sputando sul lenzuolo, poi quando riconoscevano Giuliana riprendevano a camminare. Chiesi se qualcun altro poteva andare con lei, io volevo unirmi al presidio del corteo. Alfonso sorrise a Mario e mi fece segno così con la mano.
“Provo a vedere se qualcuno viene con noi”
“Lascia – ce la facciamo anche da soli”
In aula non trovai nessun che ci poteva aiutare, Chicco e Lucia erano ancora arrotolati dentro il saccoapelo, e c’era l’odore di quel tempo, me lo ricordo bene: chimica e biologia, gas che avevano preso confidenza con in vestiti, con i volantini, con i trucioli di tabacco, con la segatura e i capelli per terra. Si erano fusi in una simbiosi vitale con la politica, con l’ideologia, con Antonio Gramsci e Mao Zedong. Era come se tutto quel mondo di rifugiati si fosse messo a respirare una fotosintesi inversa che ci faceva puzzare miracolosamente come loro.

TANTE PAROLE, ADRIANO E SANDRO.
Nei giorni che avevano preceduto questo giorno, almeno per una settimana, non avevamo fatto volantini, ne tavole di discussione, Alfonso non aveva provato a mettere in piedi un qualche colletivo per inquadrare “realta e mistificazione” – non si erano bruciati i giornali dei capitalisti e non si era preparata nessuna forma di contestazione, i Comitati Marxisti Leninisti non avevano allestito i loro panelli nell’atrio con frecce rosse per piegare le dinamiche sociali, gli striscioni si erano imbastiti all’ultimo minuto così come venivano, alcuni si erano semplicemente adattati da vecchi lenzuoli che avevamo scritto l’inverno. L’unico nuovo era quello che Giuliana aveva proposto. La contestazione questa volta sembrava si stesse decidendo su un diverso livello – questa volta non centrava la gerarchia ma il “significato”, un significato che la parola lotta non aveva mai avuto. Per noi era misterioso ma eccitante, e tanto più eccitante quanto lo si poteva sentire crepitare intorno, nascosto sotto le cose. Nessun lenzuolo, nessun volantino, nessuno sguardo fisso a chiare lettere sul ghigno superbo di un compagno. Sembrava passare di parola in parola di bocca in bocca, di cuore in cuore, dai Marco dai Luigi dagli Adriano e dai Sandro, sembrava scritta in un codice nuovo che era solo intuibile leggendo labbra e sguardi, bisognava essere pronti, e tutti già lo eravamo – conoscevamo per istinto l’ energia che sarebbe successa, non avevamo bisogno di nessuna “coscienza” , perchè nessuno di noi aveva paura.

17 FEBBRAIO 1977. SAMPIETRINI VOLANO COME SPILLI
Era così chiaro, ma non riuscivo a spiegarlo a Giuliana. Non ci poteva essere coscienza di classe senza unione mi rispondeva sulle scale, e già il discorso partiva male, commetteva l’errore, lei, come tanti altri compagni di fermarsi, pensare, indottrinare il discorso e cancellare l’istinto. Cercava di tenere diritto il palo e non farlo sbattere sui corrimani mentre salivamo verso l’aula 405. “Lascia lo prendo io”. Come si faceva a parlare di coscienza di classe? Che cos’era questa classe? Ma più che altro che bisogno avevamo di formare una classe? Giuliana proceda a fatica ma non voleva essere aiutata e io la lasciavo fare. Alzandoci il mondo del corteo diventava sempre più piccolo e mi dava un senso di vertigine guardarlo da lassù, si snodava da dietro l’angolo del palazzo di fronte fino al camioncino bianco. “Non credi sia troppo alto, dal quinto piano neanche lo vedono lo striscione”. Una volta girati verso il lato Ovest si vedeva bene il camioncino bianco e il piccolo palco su cui avrebbe dovuto parlare Lama.

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