Tuesday, March 27, 2007

Al direttore - Dal novembre 2002 passo in Afghanistan
in media 4 mesi l’anno. Lavoro, nell’ambito
della cooperazione internazionale, a
contatto con un gruppo di donne, di cui alcune
mi chiamano sorella, vivo una quotidianità più
afghana che occidentale; ho girato 7 province,
raccolto racconti, letto il Corano, studiato un po’
di storia islamica, e sto ancora cominciando a
imparare. Mi affascina chi, dopo pochi giorni o
settimane, muovendosi tra un progetto umanitario
e un albergo presidiato, dà giudizi e spiega
un paese di cui ha capito tutto. Io non sono così
brava: quando accadono certi fatti non so esternare
opinioni, ho bisogno invece di spiegazioni.
Come ad esempio nel recente caso Mastrogiacomo.
Ero a Kabul quando è stato rapito e liberato,
e chiedo, a titolo esclusivamente personale:
- Perché un governo che deve occuparsi di decine
di milioni di cittadini, alcuni dei quali sparsi
per il mondo, si dedica a uno solo dei suoi figli,
in pericolo, mentre quello stesso giorno, come
ogni giorno, altre vite sono pure in pericolo
o si spengono nell’indifferenza, mentre urgenti
bisogni collettivi aspettano?
- Quel figlio speciale è stato rapito mentre faceva
il suo lavoro rispettando le norme di sicurezza
raccomandate a chiunque sia in Afghanistan?
Ha pensato a non mettere a rischio altre
vite, oltre alla sua? Ha misurato le possibili conseguenze
dei suoi atti? Sapeva che chi ha scelto
la via dell’imprudenza ha pagato a volte con la
morte? Perché i suoi colleghi non hanno seguito
quella strada pur avendo lo stesso diritto-dovere
di ‘informare’? Aveva un compito eroico tutto
suo, una missione speciale? Per questo meritava
di essere salvato pagando un simile prezzo?
- Ma qual è il prezzo pagato per Mastrogiacomo?
Oltre al tempo del governo e ai lunghi giorni
in cui un’ambasciata coraggiosa, sovraccaricata
e straordinariamente reattiva – che svolge
un sottile lavoro diplomatico mentre si è improvvisamente
trovata impastoiata dall’imperativo
di salvare un giornalista, quanto è costato
questo giornalista, in moneta, in delicati equilibri
infranti e in vite umane, già pagate o messe
a repentaglio dalla sua liberazione?
- Quanti talebani vale un italiano? Quanti
sforzi afghani e internazionali, pericoli e perdite
avute per catturarli, è lecito mettere sull’altro
piatto della bilancia con cui Mastrogiacomo è
stato pesato? E quanti autisti, interpreti, insomma
quanti afghani possono essere sacrificati
all’informazione?
- Mastrogiacomo non avrebbe potuto tra un
flash e l’altro, magari sottovoce, chiedere scusa?
- Se è vero che Gino Strada ha detto “Meglio i
talebani che un governo amico degli americani”,
vorrebbe spiegare a nome di chi parla? Perché la
grande maggioranza degli afghani – per quanto
mi riguarda tutti gli afghani che conosco, alcuni
dei quali rischiano lavorando con noi, sapendo
che nessuno pagherà mai per loro in talebani
– crede in una svolta democratica del paese,
non vuole il ritorno dei talebani né che i contingenti
militari lascino l’Afghanistan, e chiede:
“Come mai ci aiutate a costruire uno stato democratico,
fate ospedali, tribunali, scuole, e poi
per salvare uno di voi accettate il ricatto dei nemici
della democrazia?”.
- Perché il guru dell’Afghanistan, l’amorevole
soccorritore si scaglia contro i militari che
fanno il loro dovere anche portandolo ad abbracciare
Mastrogiacomo davanti a una macchina
fotografica? Perché mentre molte organizzazioni
umanitarie agiscono in silenzio, lasciando
la politica a chi compete, il leader di
una delle tante, di innegabile valore e dichiaratamente
neutrale, parla pubblicamente di politica
in modo non neutrale? Invece di alimentare
così fratture e tensioni che non servono a nessuno,
non potrebbe usare la sua esperienza per
aiutare a conciliare, a capire?
- Contenta solo per lui, auguro lunga vita a
Mastrogiacomo. Mentre se la gode penserà ogni
tanto che, grazie alle modalità e al prezzo della
sua liberazione, in Afghanistan il pericolo di rapimenti
è aumentato e la situazione è ancora un
po’ meno facile, non solo per gli italiani?
Sono tutt’altro che un’eroina, se fossi rapita
certo vorrei aiuto. Ma mi unisco qui a chi, lavorando
in Afghanistan, ha lasciato disposizioni
scritte di non trattare oltre limiti ragionevoli,
che escludono di pagare costi tali da creare problemi
a due governi, quello afghano e quello italiano.
Anche se la paura al momento mi spingesse
a chiederlo.
Susanna Fioretti. (da il Foglio di oggi)

Tuesday, March 20, 2007

La mattina del sogno sembra abbia appena piovuto. Passano camioncini addossati agli spigoli del marciapiede. I camioncini fanno il rumore di un dentista mentre schizzano pezzi di materiale dalle spazzole. Sono tantissimi, si perdono in una striscia chilometrica. Quando entro nel bar c’è un ragazzo nuovo, mi saluta e mi chiede cosa voglio, io non ordino niente, lui mi fa il caffè, me lo porta vicino e mi dice “ecco”. Quello che vedo, mentre lui fa tutte queste cose, è il suo primopiano: il ragazzo ha la faccia del francese e i capelli più corti di come me li ricordavo. Noto che la tazzina del caffè è sporca di macchioline marroni. Cerco un posto vuoto da macchioline per appoggiare le labbra ma non lo trovo. Un'altra volta provo con il dito a passare su una di queste macchie, ma non viene via niente, uso anche la saliva e sfrego ma la macchia rimane. Gli altri clienti del bar non si lamentano, sono per lo più donne/ragazze con fusò neri e ballerine lerce, hanno i capelli impiastrati, le unghie di smalto screpolato e disgustosi segni della ricrescita, gli uomini, alcuni senza denti, hanno il colorito come bruciato dal sole e non portano le calze. Ho la precisa sensazione di rischiare la vita, ma ogni volta lo bevo, ogni volta ci entro, e lo bevo. A volte cerco di appoggiare le labbra su la minor superficie di macchioline marroni possibile, ma rischio di rovesciarlo, così ci rinuncio. Quando esco mi dico che sono veramente cogliona ma che ormai è fatta. Mi avvolge l’angoscia. Non si può piangere sul latte versato mi dico. Mi sono ammalata e devo morire. Poi una mattina la tazzina del caffè è incrostata su tutto il bordo di una patina marrone, non si vede nemmeno il bianco, così proprio non ce la faccio – lui mi guarda, e ci appoggia le labbra per farne un sorso (ha un piercing sulla lingua), la sua pressione calda assorbe il marrone e lascia una zona di pulito, io ci metto le labbra cercando di calibrarle giuste sull’impronta lucida. Finiamo a letto insieme e lui mi dice che è felice e si ferma a dormire da me così non deve prendere più il pulman tutte le mattine. Ho intenzione di dirgli al più presto questa cosa pazzesca: che l’ho riconosciuto, e può smetterla di fingere, o almeno mi spieghi a che gioco sta giocando. Fuori sulla strada i camioncini della nettezza urbana non hanno ancora finito di passare – fumiamo spesso affacciati al davanzale con davanti quell’infinito turbinio di detriti che si leva dal marciapiede. Mi rendo conto di avere iniziato a fumare anch’io. Poi una volta di queste lui tira fuori una siringa e dice che non ha più senso nascondersi se ci amiamo. Si fa lì sul mio letto, davanti a me, con i capelli bagnati. Dura un momento, la pressione dell’ago, poi deglutisce. Si inietta dentro tutto e mi guarda, da lì si lascia andare indietro chiudendo gli occhi (quest’immagine è veramente molto bella), ha le labbra secche nella luce color limone che viene da fuori insieme al rumore della strada, sembra morto e io mi rannicchio al suo fianco e gli tengo le mie labbra sul collo.

II sogno continua e finisce male, in effetti io non mi ranicchio (almeno non me lo ricordo nel sogno), divento anch’io una tossicodipendente, comincio a indossare giubbotti di pelle, ad avere le occhiaie. Mi guardo allo specchio e mi chiedo che fine ho fatto, non è proprio quello che mi immaginavo, ma in un certo senso sono felice. (ci sarebbe da dire che la cosa più disturbante del sogno è che io mi sento felice…)

Monday, March 19, 2007

St. Moritz 18/03/2007

1. "Frottola"
2. "Prepuzio"
3. "Guaina"
4. "Singulto"
5. "Ghirlanda"

Friday, March 09, 2007

LA SOCIETA' CHIUSA E I SUOI NEMICI

Il palco di un teatro, sfondo sonoro di risa e clamori, magari un corteo, Annalola con il microfono di Paolini, una cascata di capelli neri, le pause giuste e l’ombra sul parquet scamosciato:

Era l’adolescenza di una generazione ricca di fantasia, per noi è diventata l’età mitica della liberta e dell’autocoscienza, dell’emancipazione, del sesso della droga e del rock and roll. Il ’68.
Capelloni, cialtroni, intelligenti, tormentanti e frustrati sognatori .......... allora popolavano le strade delle città rendendole teatro della penultima battaglia epica per la libertà, oggi si sono fatti ceto intellettuale, e ci governano dalle tv e dai giornali, dalle università.
Non perdono occasione di ricordarci quanto è stata mitica la loro giovinezza. E’ arrivata la musica e la libertà con loro è caduta la disciplina formale di un sistema bacchettone e noioso: la famiglia patriarcale e il sistema di educazione tradizionale.
Una grande trasformazione.
Poi i sessantottini sono diventati padri, ora nonni, e noi, loro figli abbiamo lasciato inconsapevolmente andare le cose per inerzia proprio là dove le avevano indirizzate, tranquillizzati dal mito di quella conquista.

(il tono diventa drammatico lo sguardo dell’attore passa sulle facce degli spettatori)

Forse, lo dico ora, abbiamo fatto male: la famiglia dilaniata dalla troppa libertà sta perdendo la propria identità, la scuola schiacciata dall’antiautoritarismo sta diventando una fabbrica di smidollati in cui non si distinguano più i professori dagli alunni.

(lunga pausa, cambia lo sfondo la luce la musica)

Vorrei che alcuno intervenisse a promuovere una controrivoluzione che servisse a istituire delle nuove gerarchie, a rendere la disciplina un valore a scapito della libertà, a ridare autorità ai professori, a convincere i padri a schierarsi prima dalla parte dei presidi poi dei figli, a far capire che vietare a volte è più difficile che permettere, che la perdita della verginità e dell’innocenza sono delle conquiste e non dei piaceri.

Ma poi mi guardo intorno e ci vedo rammolliti dentro l’aura malata di quel sessantotto, a mollo in un antifascismo primordiale che ci fa vedere con sospetto ogni principio di autorità e di disciplina. E non mi sorprendo più di quello che ogni giorno leggo sui giornali comunisti.

(Si leva ora un jingle severo e una nuova figura lentamente entra in campo)

Monday, March 05, 2007

MONDO SCOUT/1
Ci sono finita costretta dai mie genitori, io non ci volevo andare, fu un tentativo di recuperarmi in ritardo, avevo già dodici anni. Credo che i miei vedessero gli scout come una specie di centro del benessere cattolico, in cui non si fumava, le ragazzine non si truccavano, si cantavano canzoni davanti al fuoco e si stava lontani dalle cattive compagnie. Una comunità di assistenza per tutte le potenziali Laure Palmer d’Italia. Avrei imparato a socializzare come diceva la mamma, e mi sarei divertita. Mi ricordo che si facevano estenuanti camminate in montagna nei week-end, dove i maschi andavano in visibilio nell’accedere il fuoco senza fiammiferi, nel fare le legna, e nel poter usare un coltellino dal manico rosso ( tutti avevano un coltellino dal manico rosso): sembravano dei piccoli invasati usciti da un romanzo di Benni, non li sopportavo. C’era poi questa idea che l’avventura era tanto più vera quando più ci si sporcava e quanto meno ci si lavava, mi ricordo – alla lunga diventò una cosa divertente, come molto di tutto il resto.
La vita vera, l’avventura, la strada ci venivano ribaltate o ridisegnate all’interno di un determinato cammino spirituale, un senso morale: il codice scout. Noi eravamo troppo piccoli per metterlo a fuoco, ma ciò non gli impediva di lavorare sotto la superficie. Ci face sentire diversi, speciali, ci regalò un mondo: una specie di mondo “indiano” con le sue legge e i suoi dei. Da un parte fu bellissimo potere lavorare in quella biblioteca fantastica, dall’altra ci sentivamo in diritto e in dovere di giudicare tutti quelli che non erano come noi. Alla lunga questo dovette creare i suoi cortocircuiti, soprattutto quando il “mondo indiano” perse il sostegno della fantasia e i nostri giudizi sugli “altri” si ripresentarono a chiederci il conto. Così più a meno dopo due anni, io e altri della mia età uscimmo dagli scout, dilà dal vetro ci stavano già aspettando Laura Palmer, i bei ragazzi e le cattive compagnie.

Thursday, March 01, 2007

(Je suis ton pile /Toi mon face/Toi mon nombril/Et moi ta glace/Tu es l'envie et moi le geste/T'es le citron et moi le zeste/ Je suis le thé, tu es la tasse/Toi la putain et moi la passe…)

Il mio ragazzo, o il ragazzo che occupa costantemente il divano del mio appartamento nottetempo, l’uomo/ragazzo che mi accelera l’ansia con i suoi sorrisi, questo intellettuale/bambino che lavora nella redazione di una nota trasmissione televisiva su La7, in mellifluo bisbiglio, postcoito, ha detto che non mi ama ridendo, io gli avevo appena detto che non lo sapevo, così mi ha fregato.
Ci sono milioni di motivi che gli permettono di varcare il mio pianerottolo, soprattutto mi fa diventar matta quando ci ubriachiamo. Confeziona mojto ghiacciati dentro una brocca che abbiamo comprato alla Rinascente con la menta di una bancarella di Porta Genova. C’è poi, dell’altro, dell’altro di cui all’inizio non mi curavo: mi parla costantemente di Carla Bruni facendomi ascoltare ripetutamente il suo primo disco: “Qualq’un m’a dit”, (dice che Raphael è l’uomo più fortunato del mondo, come prima di lui Mick Jegger ed Erick Clapton e Kavin Kostner) lui traduce le sue canzoni, lì sul divano con il mio dizionario delle medie, e mi sembra estasiato: mi chiede di sentire come fa questa strofa, poi mi guarda e mi dice che lei qui è la madonna, io l’ho guardo e lui strizza gli occhi e bisbiglia che questa cosa dentro la voce di Carla Bruni noi donne non la potremo mai sentire. Io lo guardo allora. Ma tengo il segreto.

(Je suis ton pile /Toi mon face/Toi mon nombril/Et moi ta glace/Tu es l'envie et moi le geste/T'es le citron et moi le zeste/ Je suis le thé, tu es la tasse/Toi la putain et moi la passe…)