Friday, November 18, 2005

“Impara: sono sempre i più stupidi quelli che se la tirano!”
E' un modo di esordire inadeguato ai miei stivali rasoterra e alla mia gonna, Andrea mette giù il telefono e mi guarda come lo gnomo di un fantasy tascabile, sembra non voglia lasciarsi convincere e mi vorrebbe di più. Gli rispondo che sono solo una collaboratrice e che il mio lavoro è un altro. Riesce a lamentarsi di essere entrato pure qui, lo fa con una sigaretta in mano, cita Calvino e qualcosa di sbagliato in questo blog, lo rassicuro del vizio spiritoso tra autore e narratore, Andrea è ormai dilà dalla finestra, sopra il piazzale, lambisce il mondo come lo spettro di una parola vuota, è semplicemente il mio direttore che vaneggia su certa letteratura americana che io amo e di cui ho scritto, non c’è limite al peggio dice, poi accarezza un libro dalla copertina nera con una morta in uniforme, si è già spiaccicato a una latitudine improvvisa, esco e vado al mio vero lavoro lasciandolo appeso come un ragno morto all’ombra del cielo.

Alla sera ritorno con certe novità editoriali appena uscite, mi piacerebbe discutere sui ringraziamenti dell’ultimo fandango, ma trovo tutto spento con quell’odore di sigaretta che trema, metto a fuoco e il suo ufficio entra subito nel mio blog:
c’è la foto di ferrara imprigionata dentro una cornice rubata forse a un comando dei carabinieri, ci ha fatto due baffetti con il pennarello nero per condirla di eresia (sospetto che ci sia sotto scalfari), il computer e la stampante sono all’ultima moda, le vetrate attirano sempre una luce surreale filtrata dalla chiesa e sbattuta in alto dal piazzale, poi tutto è carta e inchiostro a parte un telefono un registratore e una tuta della juventus appesa come una seconda pelle alla statua di beethoven.
E’ la prima volta che sono qui sola, così mi tolgo il dubbio, faccio cadere mille cd, e scopro che sotto ferrara soffoca cossiga con il pizzetto.

Tuesday, November 15, 2005

“Ieri ho visto il mio funerale:
c’era un’aria di novembre e il cielo chiaro. Dalla finestra della mia cucina ho guardato giù nel piazzale: ho visto tanta gente attorno alla mia bara chiusa. Quarantadue ore prima ero sceso a dare da mangiare al cane proprio lì dove adesso luccica il legno, qualcuno si sta chiedendo il perché, io adesso so che non c’è nessun perché. Ho guardato la gente (si arrampicava per la salita, si faceva largo tra i vigili), qualcuno mi sembrava triste qualcuno no, ma tutto era così composto che non mi sono chiesto cosa era vero e cosa no. Mi hanno portato via che c’era ancora luce.
Per il mio funerale hanno chiuso la statale e hanno fermato una corriera, siamo scesi dalla collina dove abito, abbiamo attraversato la strada e siamo entrati in una conca verso la chiesa, lì non c’era più luce. Lenti abbiamo percorso la strada fiancheggiata da file di cachi, l’ombra era dolce, i rami dei cachi spogli, piegati dal peso dei frutti, neri i rami, rotondi e rossi i frutti. Sembrava di scivolare. Molti sono rimasti fuori dalla chiesa, non perché c’era troppa gente ma perché la chiesa era troppo piccola. Il prete con gli occhiali ha fatto una predica onesta. Hanno cantato la mia canzone preferita. Poi ci siamo spostati al cimitero, che sta a fianco, più in basso della strada circondato da un muro grigio. Sentivo i singhiozzi delle mie ragazze.
Anche al cimitero non sono entrati tutti, non perché c’era troppa gente ma perché il cimitero era troppo piccolo, si sono messi a guardare dall’alto, vedevo tantissime teste sbucare dal muro, e lì eravamo tutti così piccoli.
La mia fossa era aperta, con un mucchio di terra scura a fianco, tirava un po’ d’aria, ma prima di mettermi dentro si sono messi a cantare.
I miei amici del coro con le loro facce scolpite dalla luce delle Alpi, affilate e dure, ancora facce da contadini, hanno cantato congelando il dolore per un pò. Era bello che fossero lì perché io sono stato tante volte lì con loro, con quella stessa faccia tagliata dalla luce delle Alpi, la mia terra.
Quando mi hanno messo sotto non ho sentito più niente, solo il pianto delle mie bambine”

Thursday, November 10, 2005

“Il mio primo bacio fu con un ragazzo basso e pallido con in testa un intricatissimo sistema di riccioli . Aveva le dita corte, le gambe corte e qualcosa in potenza nel volto. Non ho mai più visto capelli tanto arancioni, folti e alti, il mazzo intricato degli scarabocchi di un bambino. Con una certa luce negli occhi, e una pelle quasi trasparente. Oltre a strizzare le palpebre come i miopi faceva strane espressioni, le alternava a una velocità nauseante, se gli stavi a distanza pre-bacio ti inondavano la faccia. Avevo voglia di baciarlo per non guardarlo. Così quando l’abbiamo fatto, una notte d’ottobre, non volevo smettesse più: ero certa di scoprire, riportandolo a una distanza normale, che invece di parlare emettesse solo dei lamenti sbattendo le mani dappertutto come il parcheggiatore che sta sotto l’ufficio di mio papà e cammina con le scarpe ortopediche. E’ stato il bacio più lungo della mia vita. Non so per quanto stetti dentro la sua bocca: circumnavigavo il palato, picchiettavo sui denti, finii la saliva e poi andai avanti ancora. Credetemi avevo paura. Oggi tutto mi sembra lontano ma allora innescò qualcosa che non posso nascondervi trovi ancora imbarazzante. Aveva sapore di latte, l’alito del ragazzo coi riccioli sapeva di latte e a volte oggi se mi distraggo mi sembra sia rimasto da qualche parte ancora nella bocca.”

Tuesday, November 08, 2005

Viola ha una pettinatura artificiale che sembra un modello di macroeeconomia, invece Carlo è bello come una rima. (una striscia di luce arriva dalla porta finestra e ci lascia un effetto romantico, mi ricorda le scie delle barche, qualcosa di piatto: forse gli ultimi giorni di una vacanza in montagna). Io li guardo da lontano sprofondati dentro la loro ombra che pare fatta di cioccolata fondente e penso che avevano ragione i neoclassici sulla concorrenza perfetta, il mondo non ha bisogno dei comunisti, cancello subito il nome di keynes dalle prossime cose da imparare e Carlo mi illumina con il suo sorriso virginiawoolf. Poi rientriamo chiamati dalla filippina senza rughe: ci porta pollo al curry e risotto col tartufo, sporco le mie posate d’argento maculate di nero cercando di ricordare il nome della filippina, sento tantissimi altri nomi: camilla, martina, allegra, aurora, lavinia, ma non il suo, poi rischio di ingozzarmi con una torta sottile come un coperchio. A metà della cena ho la netta sensazione di perdere il controllo sui miei superpoteri, di essere fraintesa o perfino smascherata, lo capisco dalle occhiate tra mamma e figlio, penso che vorrei essere come la donna che mi sta di fronte, proprio con quel sorriso che sa ridere veramente. Ormai mi sono tolta il golf e mostro un paio di ascelle pezzate, poi chiedo il bagno: sto forse ridendo troppo e la torta rischia di ammazzarmi, finalmente Viola mi porta via, prendiamo l’ascensore per raggiungere la sua stanza. Le voci giù non si fermano ma - come dentro un vortice - continuano a roboare celestiali. Le sento finchè arrivo a casa e mi trovo Amanda che perde le bave avvolta in un cencio che pare il mio copriletto.

Wednesday, November 02, 2005

Bea - la mia vicina di scrivania.
Ci arroventiamo. Le bocche di fuoco dei condizionatori tremano. Io aspetto che diventi tutto arancio e mi frego le mani. Taglio dei costi. Nuove stufette elettriche. Qualcosa che ha a che fare con il disastro- la guerra- la cortesia e l'inferno oppure il giornalismo di provincia. Vorrei ritornare in America. Ma Bea è sempre sorridente e ogni giorno ordina un libro nuovo per telefono a Guido.
- Quando hai tempo se passi da qualle parti - oggi, domani o dopo non ho fretta - mi prendi un libro?
- "Dante Alighieri", si...proprio così come lo dico.

(Guido è il fratello di Lapo che adesso sta in America con Kate, invece Bea aspetta "Dante")