Monday, March 05, 2007

MONDO SCOUT/1
Ci sono finita costretta dai mie genitori, io non ci volevo andare, fu un tentativo di recuperarmi in ritardo, avevo già dodici anni. Credo che i miei vedessero gli scout come una specie di centro del benessere cattolico, in cui non si fumava, le ragazzine non si truccavano, si cantavano canzoni davanti al fuoco e si stava lontani dalle cattive compagnie. Una comunità di assistenza per tutte le potenziali Laure Palmer d’Italia. Avrei imparato a socializzare come diceva la mamma, e mi sarei divertita. Mi ricordo che si facevano estenuanti camminate in montagna nei week-end, dove i maschi andavano in visibilio nell’accedere il fuoco senza fiammiferi, nel fare le legna, e nel poter usare un coltellino dal manico rosso ( tutti avevano un coltellino dal manico rosso): sembravano dei piccoli invasati usciti da un romanzo di Benni, non li sopportavo. C’era poi questa idea che l’avventura era tanto più vera quando più ci si sporcava e quanto meno ci si lavava, mi ricordo – alla lunga diventò una cosa divertente, come molto di tutto il resto.
La vita vera, l’avventura, la strada ci venivano ribaltate o ridisegnate all’interno di un determinato cammino spirituale, un senso morale: il codice scout. Noi eravamo troppo piccoli per metterlo a fuoco, ma ciò non gli impediva di lavorare sotto la superficie. Ci face sentire diversi, speciali, ci regalò un mondo: una specie di mondo “indiano” con le sue legge e i suoi dei. Da un parte fu bellissimo potere lavorare in quella biblioteca fantastica, dall’altra ci sentivamo in diritto e in dovere di giudicare tutti quelli che non erano come noi. Alla lunga questo dovette creare i suoi cortocircuiti, soprattutto quando il “mondo indiano” perse il sostegno della fantasia e i nostri giudizi sugli “altri” si ripresentarono a chiederci il conto. Così più a meno dopo due anni, io e altri della mia età uscimmo dagli scout, dilà dal vetro ci stavano già aspettando Laura Palmer, i bei ragazzi e le cattive compagnie.

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