Monday, April 10, 2006

Silvia aveva vent’anni la prima volta che l’ho vista, me la ricordo messa sull’attenti a guardarsi le scarpe, vestita di bianco e di nero, con la valigia perpendicolare sotto la mano. Quando la incontrai nella stanza mi salutò come per un dovere imparato e fastidioso, non so da quanto era lì in quella posizione di attesa con la valigia parallela alle scarpe nere e la femminilità di un soldatino, ho immaginato da un’eternità – io che non volevo andarmene e avevo ancora le lacrime agli occhi – lei mi sembrava indifesa e vuota come il disegno su un muro, aveva sul viso i colori della periferia: il grigio, l’ocra e il colore del metallo. Nella stanza c’era odore di legno appena incerato – tutto era un’impressione perché era un mondo sgualcito quello che evocava silvia – solo un’eventualità o un’ombra dentro cui sembrava perdersi la forma, rimanevano le tracce - che imparai a cercare negli anni della nostra convivenza – ma quel primo giorno mi sentii sbalzata su marte e rimpiansi, come non avrei mai creduto, tutti i miei compagni del Berchet.

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